martedì 1 novembre 2011

EL DìA DE MUERTOS. FABIAN NEGRIN LO RACCONTA AI BAMBINI ITALIANI

C'è una festa particolare che mi affascina da sempre. È il Dìa de Muertos, la festa dei defunti della cultura messicana, diventata patrimonio dell'umanità il 7 novembre del 2003. La festa, come la conosciamo oggi, risale al XVI secolo ed è la sintesi dell'incontro tra credenze, usi e riti originari degli indigeni locali e l'introduzione del canone cattolico imposto dai colonizzatori spagnoli. 

Da tempi immemorabili, i nostri antenati hanno capito che la vita non poteva spiegarsi senza la morte, però la morte per i nostri nonni non era una cosa terribile, come dopo sono venuti a insegnarci i conquistatori, ma era invece l'inizio di un nuovo viaggio che ci avrebbe ricongiunti come guerrieri al sole. Per gli antichi messicani la vita era solo un tempo sulla terra, siamo usciti da lei, per poter conoscere la meraviglia dei suoi frutti, per godere dei suoi colori, per ascoltare il canto dello zenzontle, l'uccello dalle quattrocento voci, per godere delle quattro direzioni dell'universo, e dei suoi elementi: l'acqua, il vento, il fuoco e la terra, come dicevano i greci. Però con una simbologia distinta, dato che ognuno di questi elementi insegnava all'uomo a essere differente: per esempio l'acqua insegnava a camminare uniti insieme con il proprio popolo come il fiume, di fronte al pericolo di sfumare come vapore, o a essere solido come il gelo di fronte al nemico e ad avere una coscienza trasparente e limpida come una goccia d'acqua. La morte non era una cosa brutta, era il ritorno all'origine, era lo specchio col quale ci confrontavamo per evitare la vanità e il desiderio di potere. E dato che la vita era corta e dovevamo separarci da lei, come tutti. Però morire non era facile, colui che non moriva lottando per la terra, colui che non l'aveva amata col suo lavoro, e non aveva condiviso i suoi frutti, non sarebbe morto, non avrebbe avuto diritto al riposo. I guerrieri, autentici figli della terra, non solo erano destri nelle armi, ma erano pure autentici filosofi della vita; loro al morire sarebbero riusciti ad attraversare il fiume della morte guidati dal xoloitzcuintle (il cane amico) per poter arrivare al Mictlan (la terra dove vivono i morti), l'inframondo. Il luogo dove Quetzalcoatl, ruba il fuoco e crea l'uomo dal nuovo sole e strappa la luce dalle ombre.  (Lettera del Collettivo la Guilottina al Comitato Chiapas di Torino 2 novembre 1997).

Nella tradizione messicana, in realtà, le direzioni che potevano prendere le anime delle persone dopo la morte erano quattro e dipendevano dalla causa di morte, da come era avvenuto il trapasso, non del comportamento tenuto in vita come nella religione cristiana. La prima direzione era quella del Tlalocan o paradiso di Tláloc, il dio della pioggia, dove si dirigevano quelli che morivano in circostanze provocate dall'acqua o i bambini sacrificati al dio. Il Tlalocan era un posto di serenità, riposo e di abbondanza. I predestinati a Tláloc erano sepolti, e non cremati come gli altri defunti, per poter poi nascere a nuova vita. La seconda, è quella dell'Omeyocan o paradiso del sole, presieduto da Huitzilopochtli, il dio della guerra. Qui giungevano solo i morti in combattimento, i prigionieri sacrificati e le donne che morivano durante il parto (e per questo equiparate ai guerrieri). L'Omeyocan era un luogo di divertimento e spensieratezza, nel quale si festeggiava il sole accompagnati al suono della musica con canti e balli. Le anime destinate all'Omeyocan, dopo quattro anni tornavano nel mondo sotto forma di uccelli dalle piume multicolori. Il Mictlán, illustrato più sopra, era il luogo che accoglieva le anime delle persone morte per cause naturali. Abitato da Mictlantecuhtli e Mictacacíhuatl, signore e signora della morte, il Mitclàn era buio, senza finestre, senza possibilità d'uscita. Per raggiungerlo le anime dovevano transitare attraversando diversi siti per quattro anni alla fine dei quali arrivavano al Chicunamictlán, luogo dove raggiungevano il meritato riposo. Insieme al salma del defunto veniva sepolto il suo cane, uno xoloitzcuintle, l'aiutante che gli avrebbe permesso di superare gli ostacoli incontrati sul percorso e ad attraversare il fiume che lo separava da Mictlantecuhtli. Per i bambini morti era riservato un luogo speciale, materno, il Chichihuacuauhco, dove si trovava l'albero dai cui rami gocciolava latte. I bambini avrebbero riposato in questo luogo fino all'apparire dell'ultimo uomo sulla terra. Dopo la sua sparizione sarebbero tornati per ripopolarla. 

Al tempo, venivano dedicati due diversi periodi dell'anno alla celebrazione dei defunti. Il primo, chiamato Tlaxochimaco (intorno circa alla metà di luglio), era il mese in cui l'albero xócotl veniva adornato con fiori e offerte. Il secondo periodo cadeva nel decimo mese del calendario azteco (nei primi giorni del mese di agosto)  e lì si onorava l'Ueymicailhuitl, o festa dei morti.
All'arrivo dei colonizzatori non fu più permessa agli indigeni la celebrazione di questi riti ritenuti pagani. Fu così che l'incontro delle tradizioni religiose europee e delle credenze precolombiane fece coincidere il  Giorno di Ognissanti della tradizione cattolica alla festa mesoamericana dando vita al Giorno dei Morti. Da quel momento, le celebrazioni hanno luogo dall'1 al 2 novembre. Il primo è il giorno dei muertitos, dei morti bambini, mentre il 2 novembre è dedicato agli adulti. In questi giorni, le anime dei defunti ritornano alle famiglie per trascorrere un nuovo tempo insieme, godere della reciproca compagnia e per essere nutrite con le offerte di cibo che hanno preparato per loro con cura e amore i parenti e gli amici. La notte che unisce questi due giorni, è il momento più toccante di queste festività. I parenti, gli amici dei defunti si recano insieme nei cimiteri per adornare le tombe dei loro cari, preparare gli altari e portare le offerte che hanno preparato per condividerle durante la cena.

L'1 e il 2 novembre, i messicani mangiano i teschi e scheletri fatti di zucchero, di pane, di cioccolata; li disegnano e li dipingono con colori vivaci, offrono ai loro parenti defunti i frutti di stagione e da bere pulque, mezcal, tequila e birra; offrono loro piattini squisiti con mole, nopalitos, e pozole; i dolci di zucca, il camote e i tejocotes sciroppati sono invece per i bambini morti. E per finire, si prepara loro una festa multicolore e piena di aromi, di zimpasuchitl (il fiore giallo dei morti), di resina e di mirra. La gente nel cimitero e in casa condivide con i suoi morti questa festa della vita. Loro vengono nella notte per mangiarsi tutto e stare un momento con noi. (Lettera del Collettivo la Guilottina al Comitato Chiapas di Torino 2 novembre 1997).





Questa vivida quanto salvifica concezione della morte, questa festa, questa tradizionale e insolita celebrazione della vita dove la fine non è il precipitato della conduzione dell'esistenza ma solo prevista, allegra e condivisa sospensione del tempo passato sulla terra, è la parte fondante, l'alimento essenziale di cui si nutre da sempre l'immaginario messicano.

“La contemplazione dell’orrore, l’avvicinarsi a esso con familiarità e compiacenza, costituiscono uno dei tratti determinanti del carattere messicano. Le statue del Cristo insanguinate nelle chiese dei villaggi, le veglie funebri, lo humor macabro di alcuni titoli dei quotidiani, l’abitudine del due novembre di mangiare dolci che hanno le sembianze di ossa e teschi, sono costumi mutuati dagli indigeni e dalla cultura spagnola che oggi risultano inseparabili dal nostro essere”. Octavio Paz da Il libro della solitudine, 1959.
"Il messicano ha familiarità con la morte, la frequenta, la prende in giro, l'accarezza, dorme con lei, la festeggia, è uno dei suoi giocattoli preferiti... Il messicano guarda faccia a faccia la morte, impazientemente, con sdegno o ironia". Octavio Paz, "Il giorno dei morti" da Il libro della solitudine, 1959. 

Gli esempi di questa influenza, di questa linfa che scorre sotterranea nella musica, nella letteratura, nel cinema, nell'arte messicana sono infiniti. Qui ve ne mostro uno dei più recenti, un pluripremiato cortometraggio di animazione uscito nel 2002, che può a pieno titolo essere considerato un compendio, meglio, un vero tributo non solo ai topoi della cultura messicana, ma alle espressioni artistiche dei suoi migliori interpreti.



Hasta Los Huesos, regia di René Castillo, Mexico, 2002


Mi sono ritrovata molte volte a pensare, e a raccontare ad altre persone, l'intensità della bellezza di questa tradizione così carica di significati da riuscire a essere pienamente espressi solo attraverso quei gesti, quei riti di preparazione e partecipazione che la caratterizzano e che la nostra società sta via via perdendo. La riflessione su questo modo di celebrare i defunti mi ha offerto, in più occasioni, lo spunto per  riuscire a parlare della morte ai bambini, non solo per la ritualità di cui parlavo prima, che ben si presta ogni qual volta si deve affrontare l'evoluzione naturale della vita, ma per l'inattesa gioia e allegria che accompagnano quello che noi viviamo in ogni occasione solo come tragico momento.
Così quando ho visto Frida e Diego. Una favola messicana di Fabian Negrin, appena uscito per la casa editrice Gallucci, il mio pensiero è andato subito alla grande opportunità offerta finalmente ai bambini e ai ragazzi italiani di conoscere questa importante tradizione. 

Fabian Negrin, Frida e Diego. Una favola messicana,
Gallucci, Roma,  2011
(c) Copyright Fabian Negrin



Il fatto, poi, che questo libro sia nato dalle mani di uno dei più interessanti fumettisti, illustratori e autori della letteratura per l'infanzia, e non solo naturalmente, non può che aggiungere valore e significato alla possibilità, offerta anche a noi adulti, di confrontarsi con un'esperienza di interpretazione della vita, fino alle sue estreme conseguenze, così differente e forte da poterci solo arricchire nel dialogo con i più piccoli.


Fabian Negrin

Fabian Negrin è nato in Argentina, a Cordova, nel 1963. A 18 anni si è trasferito a Città del Messico dove si è laureato alla Facoltà di Grafica dell'Università Autonoma Metropolitana, ha frequentato un master in incisione all’Accademia di Belle Arti San Carlos e ha studiato cartellonistica con Wiktor Gorka e Corporate Identity con Felix Beltràn. A Città del Messico ha lavorato come illustratore per i principali giornali e ha collaborato come grafico con diverse case editrici e agenzie. Come fumettista ha pubblicato alcuni albi e strisce settimanali su “El Sol de Mexico” e “La Jornada”. Trasferitosi a Milano nel 1989, le sue illustrazioni sono apparse su numerosi quotidiani e riviste fra cui “Corriere della Sera”, “Manifesto”, “Panorama”, “Marie Claire”, “Grazia” e “Linea d'Ombra”. Nel 1995 ha vissuto fra Milano e Londra dove ha collaborato con “The Independent”, “Tatler”, “GQ”, “Walter & Thompson”, Radio Times (BBC). Nel 2001 ha inaugurato il catalogo della casa editrice Orecchio acerbo con Il Gigante Gambipiombo, il suo primo libro per bambini. Sarà il primo di molti titoli che seguiranno fino a oggi e che lo vedranno, di volta in volta, impegnato come illustratore o unico autore degli stessi. Tra i numerosi e prestigiosi premi che gli sono stati assegnati ci sono: nel 1995 il premio Unicef alla Bologna Children’s Book Fair, nel 2000 il premio Andersen - Il Mondo dell'Infanzia come miglior illustratore, nel 2009 la Bib Plaque e nel 2010 il BolognaRagazzi Award.

“Ormai non dovremmo più sorprenderci che Fabian Negrin, ogni anno, a volte anche più spesso, ci regali una perla della sua straordinaria sensibilità”. Andrea Rauch   
“Forse il miglior illustratore attivo in Italia e certamente il più incline a mettersi in gioco e tentare strade nuove”. Francesca Lazzarato

Sì, non dovremmo più sorprenderci delle pagine di un illustratore che non lascia mai che il lettore si affezioni troppo allo stile scelto per dare vita alla storia raccontata in un determinato libro. Apparentemente incurante del successo appena ottenuto con un titolo, lui cambia registro. Non dovremmo sorprenderci quindi di vedere che, a ogni sua nuova opera, Fabian Negrin ci aspetta sempre un passo avanti. Possiamo decidere di compierlo o no, questo passo, di seguirlo o meno. Non importa, lui non si sposterà per venirci incontro. Il suo registro cambierà a seconda di ciò che avrà deciso di raccontarci in quell'istante della sua vita, con gli occhi, il pensiero, forse anche le emozioni, di quel preciso momento della creazione. È così si ha la sensazione, seguendo questo illustratore di libro in libro, di essere fatti partecipi di un tassello della costruzione del suo, pare inesauribile, immaginario. 

Frida e Diego. Una favola messicana, racconta il Dìà de Muertos di due ipotetici Frida Kahlo e Diego Rivera bambini che, per caso, si incontrano nel negozio di dolci della loro città, luogo caro di quei giorni di attesa e devozionale preparazione. 

Fabian Negrin, Frida e Diego. Una favola messicana,
Gallucci, Roma,  2011
(c) Copyright Fabian Negrin

Fabian Negrin, Frida e Diego. Una favola messicana,
Gallucci, Roma,  2011
(c) Copyright Fabian Negrin


Lì si danno un fuggevole appuntamento al cimitero dove quella stessa sera si ritroveranno, ciascuno e insieme a propri cari, a celebrare i propri defunti. In quel luogo denso di atmosfera e di simboli, la realtà cederà presto il posto alla fiaba. Inseguendosi tra le tombe del campo santo, Frida e Diego cadranno in una fossa scavata per ospitare un prossimo defunto e li saranno condotti dritti dritti nel mondo dell'oltretomba. 

Fabian Negrin, Frida e Diego. Una favola messicana,
Gallucci, Roma,  2011
(c) Copyright Fabian Negrin


Fabian Negrin, Frida e Diego. Una favola messicana,
Gallucci, Roma,  2011
(c) Copyright Fabian Negrin



Fabian Negrin, Frida e Diego. Una favola messicana,
Gallucci, Roma,  2011
(c) Copyright Fabian Negrin

In Frida e Diego, il racconto di Fabian si fa ancora una volta intreccio di stratificazione di senso ed esperienza estetica. Per mano delle ombre bambine di quelli che vengono considerati i due artisti più rappresentativi dell'identità messicana, interpreti sapienti deIla voce popolare della sua arte e delle tradizioni precolombiane,  i bambini e i ragazzi, e noi insieme a loro, sono accompagnati nel cuore di un viaggio sensibile dai tratti tanto imprevisti quanto estranianti e, per questo, creatori di una narrazione capace di portare lontano. Narrazione, da cui tornare, consapevoli e rigenerati, come accade nelle migliori delle fiabe.

Fabian Negrin, Frida e Diego. Una favola messicana,
Gallucci, Roma,  2011
(c) Copyright Fabian Negrin



Fabian Negrin, Frida e Diego. Una favola messicana,
Gallucci, Roma,  2011
(c) Copyright Fabian Negrin




Le immagini di Frida e Diego. Una favola messicana sono state pubblicate per gentile concessione della casa editrice Gallucci. Ogni loro riproduzione, senza il consenso della casa editrice e dell'autore, è vietata.



Miguel Linares, Day of the Dad Sculpture of Frida Kahlo and Diego Rivera,
1993-1995, The Children's Museum of Indianapolis





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